Joker: Hanno Tutti Ragione (come scrisse Sorrentino)
Sembrava stesse per scemare il clamore mediatico scatenatosi attorno al caso Joker di Todd Phillips a seguito del trionfo veneziano, quando l’apertura della campagna For Your Consideration in vista degli Oscar 2020 lo riporta prepotentemente al centro dell’attenzione.
Prima di ripartire per questa nuova campagna, allora, nel tentativo di orientraci nella miriade di opinioni e commenti che si sono stratificati sul film più discusso in assoluto in questi mesi “facciamo il punto della situazione” in una serie di articoli, tentando di analizzare e di rendere meno incomprensibili alcune delle principali prese di posizione emerse in quello che è stato il dibattito cinefilico più prolifico, trasversale e controverso dell’anno.
Una galleria disuguale di opinioni polemiche ed entusiasmi senza remore, analisi critiche rigorose e chiacchiere da bar, in cui la sola verità che sembra emergere è che in fondo in fondo “Hanno Tutti Ragione”, come scriveva Sorrentino in quel suo bel romanzo di qualche anno fa….
Cap.1: Joker e L’aporia dei Fumettari
In fondo, come scriveva Sorrentino, “Hanno Tutti Ragione”.
Certamente hanno ragione quei fumettari incalliti e quegli esegeti scientifici della parabola batmaniana, che a questo film rimproverano la troppa libertà rispetto al modello letterario originale e una eccessiva volontà di esplicazione sulle origini del Joker che finirebbe per privare il personaggio della carica di mistero fondamentale per la sua carismaticità.
Dopo la prima apparizione nell’albo n.1 di Batman, del 1940, e attraverso molti ritorni successivi che nulla spiegavano circa la sua genesi, Joker, poco alla volta, si è attestato nel ruolo di “arcinemesi” assoluta dell’eroe-pipistrello, un parolone che piace ai critici per indicare che diventa la negazione incarnata di tutto ciò che Batman rappresenta in termini di valori positivi. L’uno è ordine e l’altro caos, l’uno è rispetto della legge l’altro eversione e sregolatezza, e laddove l’eroe è sempre compunto nella sua razionalità seriosa, l’altro è follia, divertissment, ludus e fantasia, che, per quanto declinati in una variante patologica e maniacale, ce lo rendono in qualche modo simpatico, il lato divertente del negativo che non possiamo condannare sino in fondo. Joker, quindi, diventa un’emblema del male assoluto, e il male non ha spiegazione razionale, è completamente folle, e non necessita propriamente neanche di una genesi precisa, perché il male c’è, c’è sempre stato, è senza passato ed esiste da che esite il mondo. D’altro canto, in quanto nemesi dell’eroe paladino della verità, perchè Batman non mente mai, Joker è anche il re dei mentitori e degli inganni, retaggio diabolico, e dunque è lui stesso a dire a più riprese cose di sé e del suo passato che immediatamente dopo sbugiarda, confonde i ricordi, rende ogni versione inaffidabile. In un albo del 1950 si attestano alcuni elementi sulla sua storia, che Joker poco dopo dichiara del tutto inattendibili, che però successivamente si sarebbero tramandati in varie versioni cartacee e per il grande schermo, divenendo così ufficialmente accettati dal popolo batmanista.
Apprendiamo in quell’ episodio che Joker era precedentemente noto come Cappuccio Rosso, un normale malfattore che indossava un cappuccio del suddetto colore durante i colpi, e che una volta incappato in Batman, tentando di sfuggurgli cade in una vasca di sostanze chimiche che gli sbiancano la pelle e gli deformano il viso nel caratteristico ghigno. Questa genesi molti anni dopo, correva il 1988, ritorna, e ritorna in uno deglli albi cult della saga batmaniana, l’iconico The Killing Joke, del duo Moore-Bolland, in cui resta la caduta nella vasca, ma il futuro Joker anziché essere Cappuccio Rosso è solo un membro della sua banda, datosi al crimine dopo una carriera fallita da comico, elemento evidentemente ripreso anche da Phillips. A un solo anno di distanza, nell”89, Tim Burton portava sugli schermi globali la sua trasposizione dell’eroe pipistrello, la prima in grado di competere per forza iconica del personaggio, con i mirabolanti albi a fumetti dei vari Miller, Sale, Breyfogle e compagnia bella, che tra gli’80 e i ’90 avevano completamente rifondato l’estetica della saga e rideterminato la psicologia del personaggio. E anche Burton, rifacendosi direttamente all’albo di Miller, faceva cadere il suo joker (Nicholson) nella vasca chimica per spiegarne le origini, rendendo questo elemento definitivamente canonizzato e accettato all’interno della liturgia batmaniana ufficiale.
A partire da questo insieme di cose due sono le consapevolezze che si stabilizzano in merito alle origini di Joker nella sua agiografia riconosciuta canonica, e cioè che le sue origini restano sempre e comunque nebulose e avvolte dall’incertezza, mitologiche, punto primo, ma anche, punto secondo, che se una qualche versione plausibile esiste, questa è quella in cui la caduta nel bagno chimico avviene per colpa di Batman, che quindi si lega indissolubilmente alla figura del folle clown per esserne stato il primo artefice, l’involontario creatore.
Non fa strano dunque che i discepoli più ortodossi della parabola batmaniana storcano il naso di fronte alla versione di Phillips, che disattende completamente ai principali crismi della loro liturgia.
Viene meno innanzitutto il crisma del mistero delle origini, perchè Phillips invece di lasciarle avvolte da un’aura bugiardesca e semi mitica le spiega “per filo e per segno”, e a partire da situazioni quotidiane, ordinarie, rimpiombando tutta la storia, e il personaggio in particolare, in una dimensione troppo concreta e realista, priva di ogni mistero. A questo si aggiunga che viene meno anche il carisma della miticità di questa genesi, niente più epiche fughe e lotte coll’uomo pipistrello, niente più trasformazioni alchemiche, ma una “banale” storia di disagio ed emarginazione, che avrebbe la colpa di ridurre l’iconico re degli enigmi a un penoso caso umano e sociale, uno sfigato, insomma, per il quale più che Batman ci vorrebero lo psicologo e l’assistente sociale.
E questi tutto sommato sono peccatucci, roba da due Ave Maria e un Mea Culpa, se paragonati all’apostasia più grave commessa da Phillips, che consisterebbe nell’aver voluto recidere il legame fatale tra il villain e l’eroe di Gotham, tra l’incarnazione muscolare dei valori positivi (Batman) e la sua nemesi.
In questa versione apocrifa che potrebbe intitolarsi “la vita di Joker secondo Phillips”, infatti, la genesi del villain non è più imputabile all’eroe, niente più vasche chimiche né fughe dall’implacabile Batman, ma il risultato catastrofico di una serie di malfunzionanti meccanismi sociali. Il legame di odio mitico che lega l’eroe alla sua nemesi risulterebbe definitivamente distrutto e la radice del male, molto più prosasticamente, dicono i polemici, andrebbe cercato nella società.
«Hanno Tutti Ragione» quelli che chiosano con cotanta competenza fumettistica, certo, ma per lo stesso principio una qualche ragione la avrà anche il bistrattato Phillips, che con lungimiranza aveva dichiarato: «Non abbiamo preso in considerazione i fumetti e prevedo rabbia da parte dei fans. Abbiamo scritto la storia sulla base del luogo da cui un ragazzo come Joker potrebbe arrivare. Per me è stato molto affascinante, è la vicenda di come ci si può trasformare in Joker, non è neanche lui, si parla di un uomo» una dichiarazione troppo significativa per non essere presa in considerazione.
Innanzitutto perchè, mi permetto un’osservazione personale, pare vagamente pleonastico, e assai poco proficuo sotto il profilo dell’interpretazione il voler valutare un’opera a partire da quelle che sono le sue assenze programmaticamente dichiarate, per poi imputargliele come difetto. L’addivenire a un giudizio su questo film adottando come criterio quello di una fedeltà filologica ai fumetti che gli autori hanno esplicitamente dichiarato di «non aver preso in considerazione» sembra quindi operazione d’analisi fatalmente destinata a produrre un esito negativo, non a restituire misura della portata del lavoro di Phillips e compagni d’avventura.
E poi Phillips non potrebbe essere più chiaro circa i suoi intenti: «è la vicenda di come ci si può trasformare in Joker, non è neanche lui, si parla di un uomo» nel dire questo il regista fa una dichiarazione molto precisa sulla natura dell’opera e sulla relazione che intrattiene con la figura del Joker. L’oggetto primario della sua messinscena è il percorso di formazione, o deformazione, in questo caso, di un uomo, dell’Uomo, il passaggo tragico da una condizione dell’esistente a un’altra, e la maschera del Joker gli serve solo come Macguffin hitchcockiano, cioè puro pretesto narrativo, per raggiungere lo scopo. Zorro o Pulcinella, probabilmente, avrebbero potuto svolgere la medesima funzione senza produrre effetti collaterali sulla riuscita del film.
L’intento, dunque, non è mai stato quello di trasporre fedelmente il personaggio originale sullo schermo, ma di utilizzarne solo alcuni elementi, il maquillage, la deriva criminale, da cui partire, anzi a cui approdare, per raccontare una storia a sfondo sociale e psicologico, una storia di disagio dei giorni nostri che potrebbe, il condizionale è d’obbligo, anche non avere a che fare nulla col personaggio fumettistico.
Mi pare poi che la libertà di interpretazione dei registi sia principio da rispettarsi sempre e comunque. Dal “gran rifiuto” di Stephen King nei confronti dell’infedele trasposizione del suo romanzo Shining a firma di Stanley Kubrik alle versioni stravolte di romanzetti popolari che erano i film di Hitchcock, dal frikkettonismo musicale di Jesus Christ Super Star, al profluvio di sanguinamenti di La Passione di Cristo di Mel Gibson, passando per il pittoricismo estetizzante del televisivo Gesù Di Nazareth di Zeffirelli, la storia del cinema e delle sue trasposizioni è storia di grandi tradimenti, di riletture soggettive e personalizzazioni in cui spesso è stata proprio l’infedeltà all’originale a costituire il surplus di valore del film (come dimostra la miniserie televisiva di Shining, adattata per la tv direttamente da King, fedele al romanzo, ma assai poco efficace dal punto di vista cinematografico). D’altronde lo stesso Batman nel corso delle varie riedizioni cartacee e filmiche è andato soggetto a riletture e cambi di personalità e la sua vicenda è stata in parte mutata nel corso del tempo ad opera di singoli autori che hanno introdotto significative variazioni.
Una in particolare, introdotta dall’apostata Tim Burton, interessa la materia che stiamo trattando qua. Sul n. 33 di Detective Comics del 1939 si racconta per la prima volta la storia della morte dei genitori di Bruce Wayne, che in quella sede veniva imputata a tale Joe Chill, un manigoldo di second’ordine che per rapinarli li fredda all’uscita di un teatro sotto gli occhi Bruce. Questa versione, riconfermata in altri albi si ritrova pure al cinema, nel 2005, in Batman Begins di Nolan.
Bisogna però dire che tra le molte vanterie del Joker, sia nei fumetti, che, spessissimo, nelle varie serie tv, c’è quella di essere l’assassino dei coniugi Wayne, motivo per il quale il piccolo Bruce, ossessionato dall’idea di fare giustizia per i suoi, sarebbe divenuto poi l’uomo pipistrello. E anche questa versione trova un seguito, proprio nel Batman del 1989 di Tim Burton, che cambia di pochissimo la scena, semplicemente facendo che a sparare non sia Joe Chill, ma il suo complice Jack Napier, che in seguito cadrà nella vasca chimica divenendo Joker, introducendo una importante variante negli equilibri interni al sistema dei personaggi.
Nella variante burtoniana, quindi, Joker è generato da Batman, che causa la caduta di Napier nella vasca, ma Batman è generato da Joker, che privandolo da piccolo degli affetti più cari lo spinge su quella strada di risentimento e fame di giustizia che lo porterà ad indossare il fantomatico costume da pipistrello.
Nel Joker di Todd Phillips, la scena dell’uccisione è presente con tanto di rimando diretto a quella di Burton, nel dettaglio della collana di perle che si ripete quasi uguale, solo che a sparare è qualcuno che non conosciamo, un anonimo uccisore (come era riportato, tra l’altro, in molti albi editi tra gli anni 70 e 80), un manifestante qualsiasi tra i molti insorti al seguito di Joker. Dando per buona la variante di Burton, per cui a divenire la nemesi di Batman dovrà essere colui che ne uccide i genitori, significherebbe che a divenire il Joker che conosciamo, nel film di Phillips, sarà questo anonimo mascherato, che possiamo pensare sia Napier, mentre il personaggio principale interpretato da Joaquin Phoenix semplicemente, sia qualcun altro, un Joker precedente che ha ispirato Napier nella creazione del suo Joker.
Ovviamente se si vuole dare credito a questo dettaglio dovranno cadere tutte le ipotesi di polemica filologica circa la fedeltà alla versione originale per il semplice fatto che, trattandosi di diversa persona, la storia non potrà essere quella.
L’altro dubbio circa la coincidenza di questo Joker con quello della tradizione fumettistica proviene dal fatto che Philips produce nel film alcuni elementi che possono indurci a ritenere che tutto ciò che abbiamo visto sia solamente una delirante allucinazione della mente labile di Arthur. Dubitiamo del suo stato mentale quando scopriamo che era immaginaria la sua love story con la bella inquilina della porta accanto, e ancora di più quando, sul finale, lo ritroviamo all’interno di quell’ospedale psichiatrico da cui in teoria dovrebbe essere uscito a inizio film. Quindi, se Arthur in realtà è rimasto internato per tutto il tempo le vicende che ci ha mostrato lo schermo sono solamente frutto del suo deliquio, e anche in questo caso, le incongruenze con la fonte letteraria sarebbero più che spiegate.
In fondo quella offerta da Phillips stesso sembra essere la più convincente delle letture, quella appiana ogni questione di genitura rispetto alla tradizione fumettistica:
«è la vicenda di come ci si può trasformare in Joker, non è neanche lui, si parla di un uomo»