«…Questa vita è una catena, qualche volta fa un po’ male….» cantava quell’anima bella di Lucio Dalla, e certo il verso sembra scritto per descrivere la situazione generale in cui in questi giorni disgraziati versa il cinema, catena (che ad oggi fa decisamente un po’ male a parecchi) di professionalità, di saperi, di microeconomie locali e familiari, agganciati l’uno all’altro, che come anelli di una catena reciprocamente si sostengono. Quando un anello si rompe, Ça va sans dire, la catena tutta si spezza, quindi in Action Academy riteniamo che mai come oggi il sostegno reciproco tra operatori di settore sia divenuto fondamentale. Sosteniamo l’operare virtuoso di coloro che di fronte allo scenario cdi una revisione obbligata e senza precedenti di tutte quelle pratiche di produzione, distribuzione, fruizione del cinema, hanno voluto con ostinazione, e hanno saputo “rimboccarsi le maniche”, mettendo in campo tutto il proprio estro, creativo, tecnico, logistico e imprenditoriale per trovare soluzioni nuove e vincenti in questo scenario alterato.
Con questo spirito e attraverso questo Blog Action Academy da tempo sta cercando di dare quanta più visibilità possibile all’operato dei Festival cinematografici nazionali e internazionali sia perché questo è ancora il luogo “dell’ufficialità” del cinema, quello dove i film si consacrano o si dannano all’oblio, e le sorti del mercato mondiale si giocano in una manciata di visioni, sia perché quello dei festival si è dimostrato un settore pionieristico nell’invenzione strategica di pratiche innovative di successo nel coniugare i fattori della sicurezza sanitaria con i grandi numeri di utenza. Una delle “MacGyveriane” strategie di sopravvivenza attuate dai festival, questo il focus dell’articolo presente, è stata la “migrazione” online, la virtualizzazione di intere sezioni dei loro palinsesti , o addirittura di manifestazioni intere, che hanno reso disponibili anche al pubblico dei “non addetti ai lavori” un repertorio mai visto prima di opere e di registi “super-cult”. Action Academy ha scandagliato la rete per voi e qui di seguito vi offre una selezione di possibilità di visione davvero interessanti
Sportin’ Life (Abel ferrara)
Con una eccezionale iniziativa su Jwplatform è stato di recente reso disponibile e visibile gratuitamente Sportin’ Life il documentario diretto da quel bad guy che bazzicava la scena della New Hollywood di Abel Ferrara e presentato alla 77sima Mostra Internazionale Del Cinema di Venezia. Certo non si tratta di una visione per tutti, meno che mai per gli amanti delle belle trame, del lieto fine o dei super effetti speciali, ma di certo rappresenta una vera chicca per i cinefili che già conoscono la cinematografia del ruvido Abel e per i neofiti più curiosi. Per chi ha apprezzato l’altro film recente di Ferrara, Siberia, il primo motivo di interesse per questo documentario è che questo è innanzitutto “il controcampo” di Siberia, la documentazione di ciò che avveniva al di là della macchina da presa durante la sua realizzazione, ma che non è entrato a far parte del film. Su questa prima traccia Ferrara monta ruvidamente frammenti testimnoniali disomogenei di vita, il lock down nella sua casa romana, e lacerti di quotidianità con la moglie e la figlia, le sue brucianti esibizioni blues con la sua band, il rapporto intellettuale ed artistico con Willem Defoe, con cui intreccia prolungate e interessantissime conversazioni sul senso del fare cinema. Per chi ama e conosce questo regista dalla scorza coriacea questo è un prezioso documento che ce ne restituisce, attraverso una diaristica visiva eterogenea innanzitutto una visione inedita, sconosciuta, di uomo dietro al mito del regista maledetto, di padre affettuoso, marito complicato, di musicista appassionato e di fine teorico-pratico del cinema. Ma c’è di più, perché come Ferrara stesso dichiara nel film «This not a documentary abuout my movie, this a documentary about making a documentary», una implicita riflessione meta testuale che percorre sottopelle tutto questo film, nelle parole di Ferrara e Defoe, che si confrontano proprio su concetti come quello di finzione, messinscena, recitazione e su quanto possa essere labile il confine che le separa dalla realtà, come nella natura stessa delle immagini utilizzate, che sempre sono parti reali della vita di Ferrara in cui tutti erano consapevoli di essere oggetto di ripresa cinematografica, quindi in parte anche forme consapevoli di rappresentazione, di recita. Davvero un’occasione che i cinefili virtuali non possono mancare e sulla cui prolungata permanenza in rete non scommetterei e che quindi consiglio di fruire rapidamente.
TFF: Torino Film festival
Apre i suoi battenti la più rinomata kermesse cinematografica sabauda, ma in forma solo virtuale, nella settimana tra il 20 Novembre il 28, rendendo disponibile l’intero suo palinsesto sulla piattaforma MyMovies, visibile nella sua interezza al modico prezzo di 49 euro, si parla di un cartellone di più di centotrenta opere tra lungo, medio e corto metraggi con cinquantadue anteprime mondiali e più di quaranta nazionali, e che offre anche, possibilità più versatile, di “affittare” i singoli film al ragionevolissimo prezzo di tre euro e cinquanta, che per alcuni dei titoli in questione è cifra davvero irrisoria.
Certamente vale tre euro e cinquanta la possibilità di vedere fuori concorso nella sezione Tracce di Teatro Un Soupçon D’amour di Paul Vecchiali, che per chi non lo conoscesse è un elegante signore che ha passato la novantina e che in gioventù amava bere vino con i suoi amici Truffaut, Chabrol e Rohmer, sempre presente sulla scena della Novelle Vague francese insieme a loro, ma sempre anche eccentrico e personale nell’espressione di una sua poetica, amatissimo da Pasolini che subito dopo la visione del mitico Femme Femme del ’74 disse: «sono ancora commosso, sconvolto, faccio fatica a parlare perché mi è raro, confesso, mi è successo raramente di vedere in questi ultimi anni un film così bello e così commovente.». Insomma per pochi spicci ci si può confrontare con l’opera di una vera e propria pietra miliare, che sicuramente saprà ammaliare i cinefili e gli amanti del cinema denso, in cui tutti i sottocodici dell’immagine e del suono sono domati da una volontà espressiva e autoriale fortissime, un cinema della densità e dell’intensità capace di bellezze rapinose.
E per passare da regista-mito a uno esordiente mi pare che, date le premesse ( parliamo di una commedia musicale realizzata sui maggiori successi della Carrà), sarà una spesa ben fatta anche quella per vedere Ballo ballo (Explota Explota), irriverente opera prima dell’uruguaiano Nacho Álvarez. E per restare sui debutti interessantissimi direi che per la piccola somma richiesta sia una visione imperdibile anche Memory House di João Paulo Miranda Maria, opera prima blasonatissima, se pensiamo che già è stato presentato al Festival di San Sebastian con buoni risultati di critica e che anche la mancata edizione del Festival di Cannes lo aveva selezionato. Un’opera forte, dall’andamento ipnotico e segnata da un forte impegno socio-politico. Anche Moving On della regista coreana Yoon Dan-bi è un esordio pluripremiato a livello internazionale, visto che al Busan International Film Festival ha ottenuto il Citizen Critics’ Award, il premio del pubblico, mentre nella recente edizione del Festival di Rotterdam si è visto assegnare il “Bright Future”, premio dedicato ai cineasti emergenti. Merita di essere visto.
Anche Identifying Features di Fernanda Valdez, che rielabora lo stereotipo del road movie per raccontare in una fotografia delicatamente luminosa e ambrata la ricerca di un figlio smarrito da parte di una madre dalla volontà di granito. Un mondo di marginali poetico ed evocativo.
Anche Poppy field del romeno Eugen Jebeleanu, al suo debutto, che mette in scena con realismo crudo la vita difficile di ragazzo gay nell’ambiente iper machista e refrattario delle forze di polizia, vale tutta la spesa dei tre euro e cinquanta, un po’ per il valore civile dell’opera in sé, un po’ per pugno allo stomaco che ti lascia a fine visione.
Per gli amanti del thriller e delle storie di crimine varrà la pena affittare anche The Evening Hour, di Braden King, alla sua seconda regia, che ha ben impressionato al Sundance Film Fesival raccontando con stile personale una America minore e di provincia, springsteeniana, e lontana dal sogno americano.
Per i cinefilissimi vale assolutamente la pena affittare In the mood for love di Wong Kar-wai, che qui viene presentato per la prima volta nella versione restaurata a cura della Cineteca di Bologna
Vale la pena anche Billie, il documentario sull’intramontabile Billie Holiday di James Erskine, e Milano Calibro 9, di Toni D’Angelo, che nel realizzare il sequel del mitico poliziottesco del 1972 di ferdinando di Leo riesumando almeno in parte il cast originale, Barbara Buchet in primis, in quello che potrebbe diventare uno dei piccoli cult per cinefili dell’anno. Tre euro e cinquanta li vale tutti. E li vale anche Cleaners, teen dramma a firma Glenn Barit che si candida ad essere l’opera più sperimentale del festival, se si pensa che è stato realizzato animando a 10 frame al secondo più di trecento mila fotocopie colorate a mano con evidenziatori e pennarelli. Insomma cinema raro e interessante a poco prezzo nella capitale dei gianduiotti tutto acquistabile con semplicità direttamente attraverso il sito del Torino Film festival (https://www.torinofilmfest.org/it/ ) o direttamente sulla piattaforma di MyMovies (https://www.mymovies.it/ondemand/38tff/), quindi buona visione da Action Academy
Visioni Italiane (15-22 novembre)
Dal 16 al 22 Novembre, sempre attraverso MyMovies, sarà possibile visionare per soli Euro 9.90 l’intero programma del festival Visioni Italiane (https://www.mymovies.it/ondemand/visioni-italiane/) , l’importante iniziati va portata avanti dala cineteca di Bologna per dare visibilità ad opere ed autori inconsueti, alle cinematografie lontane dal mainstream e forti per spessore autoriale.
Moltissime le opere che per quel prezzo vale la pena visionare a cominciare dal bellissimo Omelia Contadina di Alice Rohrwacher, già disponibile sul canale youtube della Cineteca. Importantissima, da valere l’intero prezzo dell’accredito, la presenza di Gianni Amelio con la versione restaurata del suo film d’esordio La Fine Del gioco, del 1970.
Un elenco del tutto provvisorio e non esaustivo, questo resovi da Action Academy, che però ci pareva essenziale e “pronto all’uso”, e certamente destinato ad ampliarsi, data la continua estensione delle possibilità d’offerta di cinema d’autore in forma digitalizzata…quindi vi aspettiamo per nuovi consigli di visione.
- Appunti di critica percettiva sulla fruizione domestica del cinema
Le modalità di distribuzione “streaming”, on line, di prodotti cinematografici, che già da tempo era riuscita ad erodere il primato storico della sala cinematografiche in misura considerevole, e le conseguenti modalità di consumo dei prodotti ricondotte alla misura del domestico, e certo almeno in parte per via delle sciagurate contingenze degli ultimi mesi che hanno recluso entro le quattro mura di casa intere moltitudini, hanno compiuto un deciso balzo in avanti nell’assunzione del controllo del mercato mondiale della distribuzione cinematografica.
Milioni e milioni di Giga byte di cinema che viene goduto nella comodità accogliente del covo domestico, con un indubbio vantaggio di tutto ciò che riguarda la circolazione e la divulgazione capillare del cinema, la conoscenza planetaria delle opere, dei registi e degli attori.
Un fenomeno di diffusione pandemica, è il caso di dirlo, che in Action Academy studiamo con attenzione per le importanti conseguenze che sta producendo tanto nei processi di distribuzione delle opere filmiche che in quelli della loro concreta realizzazione, ma che ci interessa per le nuove declinazioni secondo cui declina l’esperienza dello spettatore, educandolo a forme di contatto col film, e di decrittazione dei suoi significati, parzialmente modificate ad opera del nuovo contesto.
Cerchiamo quindi di riflettere su quelle che sono innanzitutto le differenze di livello più basso, quello percettivo-cognitivo che riguarda i nostri sensi e sensazioni durante la visione di un film in contesto tradizionale e in contesto domestico, cercando di metterli in relazione con le diverse configurazioni di livello neuronale che le due esperienze attivano.
Comodità Vs. “emozione”
Una possibilità del tutto inedita di fruire comodamente da casa di tutto quel cinema che non t’aspetti Un primo e più evidente motivo di differenza tra esperienza di sala ed esperienza domestica va ritrovato in quelle che sono le caratteristiche specifiche di attuazione della proiezione di sala, che avviene al buio e in maniera continuata per tutta la durata del film, salvo intervalli previsti. Lo spettatore, messo in condizione di sottomotricità forzata dal suo dover rimanere sulla poltroncina, esposto ad un buio prolungato che lo priva di qualsiasi altro stimolo visivo e sonoro che non siano quelli provenienti dallo schermo esperisce una condizione, in cui la sua soglia di giudizio critico si abbassa leggermente, che difficilmente può essere riprodotta in sede domestica. Un primo punto fondamentale è il fatto che in sala, diversamente che a casa nostra, gli unici stimoli sensoriali presenti nel campo d’osservazione dello spettatore sono quelli visivi e uditi forniti dallo schermo. Questo fa si che tutte le risorse d’attenzione dello spettatore vengano focalizzate su di essi, creando nei loro confronti una sorta di “super attenzione”, di capacità d’osservazione e d’ascolto potenziati che sono poi quello sguardo speciale che nei film ci porta a notare spesso e volentieri dettagli infinitesimali e sfumature impercettibili che mai noteremmo nel corso ordinario della nostra vita quotidiana.
L’altro aspetto fondamentale del buio su cui molti autori insistono è che quando protratto per una certa durata (e in questo si sottolinea l’importanza della continuità dell’esperienza di visione, che non deve venire ripetutamente interrotta) induce una sorta di lieve pre addormentamento, un leggero abbassamento dello stato di coscienza critica che consente l’adesione psicologica ed emozionale dello spettatore ai fatti finzionali della trama, quella che con termine tecnico definiscono la “croyance spettatoriale”, che in circostanze di realtà ci sembrerebbero poco credibili o addirittura assurdi. Il film viene percepito come un’esperienza che ha più tratti di similitudine con il sogno, con la fantasticheria infantile che non la realtà pienamente cosciente di tutti i giorni, in cui siamo predisposti a quel differente grado di credulità, tipico dello spettatore cinematografico, come di chi sogna, che ci permette di “immedesimarci”, cioè di aderire psicologicamente agli eventi e alle emozioni del film come se fossero reali, anche quando sappiamo non esserlo.
Entrambi questi aspetti importanti della visione di sala difficilmente potranno essere riprodotti in condizione di visione domestica, vuoi per le differenti condizioni d’illuminazione e rumorosità degli ambienti, che raramente permettono di riprodurre lo stato di isolamento percettivo dello spettatore che si ritrova al cinema, vuoi per la modalità conviviale, rilassata e tendenzialmente poco concentrata con cui questa visione pantofolaia si consuma, interrotta da chiacchiere e telefonate, spuntini e scappatelle al bagno. Da un lato non sussistono le condizioni per creare quello stato di attenzione aumentata per suoni e immagini che il film postulerebbe per via delle troppe “distrazioni” visive e sonore che l’ambiente domestico consente, e dall’altro vengono meno quelle possibilità di immedesimazione accresciute dall’abbassamento di soglia del giudizio critico che la fruizione prolungata al buio e su una comoda poltrona inducono al cinema, per via della troppa libertà di movimento che ci porta a continue interruzioni.
Tutti fattori che inducono nell’esperienza domestica a sperimentare una croyance diminuita, cioè una ridotta adesione psicologica ed emotiva, ai fatti e alle situazioni psicologiche che il film mette in scena
Stimoli (percettivi) e Cinema
Quello della croyance dello spettatore è però il livello di apprensione più evoluto del suo rapporto con il film, in cui sono implicate complesse funzioni cerebrali di tipo razionale e di interpretazione linguistica che gli permettono di attribuire un significato agli elementi finzionali del film, la trama, la recitazione, le scenografie, ecc. e che gli consentano di attivare complessi processi inferenziali, deduttivi e comparativi che garantiscano una corretta valutazione della natura puramente spettacolare, di messa in scena degli eventi e dei personaggi.
L’altro livello di interpretazione del significato che si attiva durante la visione, invece, si situa sotto il dominio di funzioni celebrali e cognitive di livello molto più primitivo di quelle di tipo razionale e verbale che sono implicate nell’interpretazione finzionale, perché riguarda il livello più basico dell’interpretazione degli stimoli sensoriali, gli stimoli visivi e uditivi che ci invia lo schermo.
Al netto di ogni complicazione di tipo “artistico”, drammaturgico o narrativo, il film per il nostro sistema “corpo-cervello” si presenta semplicemente come una multiforme sequenza di stimoli, stimoli visivi e uditivi, che una volta ricevuti andranno decodificati e interpretati. Il livello più immediato e inconscio di appropriazione del significato del film da parte dello spettatore, quello che gli fornisce gli elementi di base su cui poi elaborerà il significato più complesso e razionalizzato degli elementi di finzione, è quello dell’interpretazione “sensoriale” delle sue immagini e dei suoi suoni. Come dimostrano numerosi studi condotti tra gli anni ottanta e novanta su questo livello del significato “la dimensione dello stimolo” è un aspetto cruciale nel determinare livelli diversi di reattività allo stimolo stesso e dunque comportamenti di risposta, sia sul piano emotivo che comportamentale, molto diversificati. Uno stimolo grande, un suono o rumore particolarmente intenso e alto per volume percepito, un’immagine grande, che significa per noi un’oggetto di grandi dimensioni, attivano il nostro corpo e il nostro encefalo in misure corrispondentemente differenti, un fatto che al cinema ha una sua specifica funzionalità nel produrre una certa parte dei suoi significati.
Entità dello stimolo e intensità dell’emozione
Se improvvisamente vicino a voi deflagra un potente boato istintivamente con uno scatto repentino fate un balzo (quando si dice sobbalzare per lo spavento) nella direzione opposta a quella da cui proviene il suono, mentre se alla stessa distanza di ode il ticchettio di un’orologio, o un qualsiasi altro “piccolo” suono non vi succede nulla. Il suono “grande”, cioè con una elevata ampiezza di segnale, in questo caso innesca una reazione di fuga, lo scatto, che il suono di ampiezza ridotta non produce. Mentre il suono piccolo ci lascia indifferenti sul piano delle nostre reazioni emotive, quello grande genera un immediato “spavento” cioè una subitanea e inconscia sensazione di paura, che a livello comportamentale si traduce in un istintivo tentativo di fuga, il balzo improvviso che ci coglie. La differente intensità delle due reazioni, ovviamente, si spiega a partire dal differente grado con cui i due stimoli eccitano le aree cerebrali deputate all’elaborazione delle emozioni, il suono piccolo suscitando una risposta pressoché neutra, all’opposto di quello grande che invece causa una violenta e improvvisa attivazione elettrica dell’amigdala, l’area cerebrale deputata all’elaborazione della paura. E sarà questa attivazione a generare come risposta di difesa alla subitanea paura la scarica di adrenalina che attiva in maniera repentina i nostri muscoli, innescando lo scatto nella direzione opposta a quella da cui si presume provenire il pericolo.
Meccanismi atavici
A livello dell’interpretazione sensoriale del mondo “stimolo grande” significa reazione “grande”, cioè più intensa e immediata, perché più violenta è l’attivazione delle aree cerebrali che producono questo tipo di stimoli rispetto a quelli di entità ridotta, inducendo comportamenti di risposta più accentuati. Se ci pensate si tratta di meccanismi di difesa estremamente arcaici, radicati in starti remoti del nostro corso evolutivo. Per un nostro antenato del mesolitico il fatto che un’immagine grande, per esempio quella di un gigantesco Mammoth, eccitasse le sue aree cerebrali della paura in maniera più intensa e differente di quella di uno snello ratto della savana, e che quindi lo inducesse a innescare il comportamento muscolare della fuga in un caso e nell’altro no, era questione di stretta sopravvivenza, come il poter valutare dal suono dei passi in avvicinamento se ad accostarsi era un grosso predatore o una gracile preda.
Questo tipo di meccanismi ce li portiamo ancora dietro, come lascito immemore della nostra natura animale, e senza rendercene conto ne facciamo uso continuamente, soprattutto nell’esercizio di fruizione di quelle attività che in qualche modo riteniamo “estetiche” e collegate alla sfera emozionale.
La comunicazione sensoriale nell’arte e nel cinema
In quei contesti in cui dall’ascolto della musica, il clubbing in genere, i rave party, i concerti rock e metal, ecc, si intende facilitare nel pubblico una risposta di tipo emozionale, di partecipazione che non investa la sola sfera del corpo ma ne coinvolga le emozioni, la regola d’oro è quella di “sparare” il volume, cioè dilatare a dismisura l’ampiezza dello stimolo uditivo, attraverso l’uso di esorbitanti impianti di amplificazione. Quelli tra il pubblico che desiderano “emozioni più forti” tenderanno a piazzarsi nelle prime file, magari proprio davanti alle casse di amplificazione, dove l’intensità di segnale dello stimolo può arrivare a sfiorare alla soglia del dolore fisico. E l’intensità che si cerca in tutti questi contesti non è solo di tipo acustico, quella che si produce è una diversa potenza dei correlati emozionali dell’esperienza dell’ascolto musicale: più volume significa più emozione, maggior trasporto emotivo. In ambito visivo dell’immenso potere di suggestione emotiva che esercitano le dimensioni dell’immagine l’uomo si è accorto sin dai tempi delle ciclopiche architetture monumentali di Babilonesi e Faraoni d’Egitto, che proprio attraverso l’incremento dimensionale delle proprie effigi celebrative, statue colossali, immensi monumenti funebri, che glorificavano il loro mito, moltiplicavano la percezione della loro potenza e incutevano in sudditi e rivali un senso di timore inconscio.
Consumo domestico e intensità degli stimoli
Al cinema operano esattamente gli stessi meccanismi nel regolare il grado di intensità e il tipo di significato emotivo che attribuiamo tanto ai suoni che alle immagini. Sentirsi schiacciati dalla gigantesca immagine di un “cattivo” minacciosissimo che giganteggia su di noi dalla dimensione dei tre, quattro metri a cui lo porta lo schermo cinematografico, il trovarsi cioè di fronte a uno stimolo minaccioso sovradimensionato, come avveniva con l’immagine del mammoth, attiva delle reazioni di difesa, e una eccitazione delle corrispondenti aree cerebrali, di intensità (se non addirittura di tipo) completamente diverso da quelli che può produrre la stessa immagine ridotta alle dimensioni schermiche di un portatile o, peggio ancora, di uno smartphone. E così l’improvviso scoppio di un’esplosione non potrà farci trasalire nello stesso modo quando per via del poco volume non stimola con la dovuta intensità le aree cerebrali che ne elaborano il senso. Lo stesso improvviso sparo o suono violento che nella sala cinematografica ci fa sobbalzare di sorpresa o spavento, quando riprodotto in piccolo ci lascia quasi indifferenti perché non stimola con la stessa violenza la nostra amigdala, non induce un grado di paura e spavento di pari intensità. Un pianto ingigantito dallo schermo e dall’impianto audio cinematografici ci commuove e ci rende partecipi in maniera più intensa di uno striminzito su uno schermo di pochi centimetri e non è questione di estetica, o di arte drammatica, ma di mera biologia, perché differente è l’intensità con cui il suono della voce piangente e l’immagine dolorosa del volto con le sue sofferenti rughe di espressione emotiva eccitano le nostre aree cerebrali quando potenziati dai mezzi della sla cinematografica.
Vedere un film piccolo non è solo questione dimensionale, vederlo ridotto nelle misure, ma investe in pieno la sfera dell’efficacia di senso del film, perché in realtà significa vederlo depotenziato, ridotto più nell’efficacia che nelle dimensioni, e privato proprio di quella parte dei suoi significati percettivi che al cinema ci fanno sobbalzare e trasalire, stupire o spaventare, come ben dimostra il fatto che le tecnologie del cosiddetto home cinema, le apparecchiature di fascia alta destinate alla riproduzione domestica del cinema, tendano ad emulare sempre più precisamente le caratteristiche di fruizione della sala cinematografica, con schermi di dimensioni sempre maggiori, una qualità di immagine sempre più cinematografica e impianti audio sempre più esorbitanti, che cercano di emulare la potenza di impatto sensoriale che si esperisce davanti al grande schermo. Il tentativo è quello di restituire alla fruizione domestica quel portato di significati aggiunti, di emozioni che trovano il proprio mezzo di espressione non verbalizzata nella diversa entità degli stimoli sensoriali messi in campo nei due contesti e che per il momento restano prerogativa esclusiva della sala.