Lo Zingaro, il personaggio furioso che Luca Marinelli interpreta in Lo Chiamavano Geeg Robot, è diventato uno dei casi studio più seguiti (Marinelli è amatissimo dagli studenti di Action Academy) tra quelli che tratto insieme ai giovani attori in erba dei corsi di recitazione. Ne parlo affianco a icone consacrate del calibro di Brancaleone Da Norcia, un Gassman d’annata, e dell’Oscar iper-acrobatico (dal punto di vista mimico) Arthur Fleck-Joker di Joaquinn Phoenix quando tratto delle diverse misure espressive che può assumere la mimicità dell’attore. Personaggi dalla natura iperbolica e surreale che si apparentano per l’adozione necessaria di un registro recitativo antinaturalisticamente ipertrofico, fatto di scelte mimiche e vocali marcatissime ed eccessive.
Un recitare roboante, sempre eccedente i confini della semplice mimesi del reale, che in altri contesti e performances risulterebbe decisamente fuori misura, il famoso “over acting”, ma che quando viene “tenuto a bada” dalla capacità di controllo tecnico e dal senso di misura di un’attore grande, permette la creazione di personaggi fortissimi, icone indimenticate perché indimenticabili. Esiste una relazione stretta tra “l’eccedenza di personalità” del personaggio, il suo essere extra-ordinario, e i registri recitativi non ordinari che richiede all’attore per potersi manifestare. È questa la ragione per cui gli sguardi strabuzzati e le intonazioni leonine nel Brancaleone di Gassman o le vere e proprie acrobazie vocali e mimico facciali di Phoenix non risultano mai un qualcosa “di più” rispetto al personaggio, un’eccesso, ma parte integrante e ineliminabile di esso, anzi, sono la misura incarnata di quel surplus di grottesco, di comico, di sentimento, di tragico che contraddistingue queste figure eccezionali.
Il fenomeno Marinelli d’altro canto non si esaurisce tutto nel personaggio dello Zingaro, perché, non difettando certo di versatilità, si è saputo dimostrare perfettamente a suo agio anche in interpretazioni meno “spinte”, in cui, pur attraverso una tessitura recitativa meno accentuata e più aderente “al vero”, ha saputo creare veri e propri personaggi-icona, come il dolente Cesare di Non Essere Cattivo, l’opera ultima e uscita postuma di Claudio Calligari, o quel magnifico Martin Eden nel film omonimo di Pietro Marcello (Coppa Volpi a Venezia 2019) poetico e prosastico insieme, e perfino un non dimenticabile Fabrizio de Andrè, di cui la sentita interpretazione di Marinelli ha saputo cogliere quell’anima da Principe Libero, come cita il titolo del film, nel contesto di una produzione che in generale, invece, non sembra aver colto poi troppo bene la figura del poeta-cantante genovese. Accanto a queste icone forti che lo hanno reso celebre al grande pubblico, poi, l’attore ormai naturalizzato berlinese, ha affiancato personaggi “normali”, gente ordinaria, spesso implicata in difficili questioni emotive e psicologiche che gli hanno richiesto performance attoriche di grande delicatezza e sensibilità, come quella di Ricordi? Di Valerio Mieli, tutta giocata su un registro melanconico e dolce, epurato dagli eccessi espressivi, o quella intensa e densificata di Martin Eden.
Un attore eclettico, del cui eclettismo molto si sta parlando e scrivendo proprio in questi giorni in cui, a seguito della presentazione tenutasi durante a Festa Del Cinema Di Roma, ci si interroga su come potrà essere il suo Diabolik e su quali potranno essere gli effetti del contatto tra questo personaggio già dotato di una sua forte iconicità e di una lunga storia nell’immaginario collettivo, con il carisma e l’estro creativo di Marinelli. Oltre al carisma di Marinelli e alla iconicità fortissima del personaggio nato nel ’62 dalla penna delle sorelle Giussani a rendere ancora più interessante questo Diabolik c’è il fatto che alla regia e alla sceneggiatura ritroviamo il duo più esplosivo del cinema italiano: i mitici Manetti Brothers, gli irriverenti Manetti Bros, i cinefili da vecchio divano di casa Manetti Bros, i mescolatori supremi di generi cinematografici Manetti Bros, i Manetti col loro pirotecnico immaginario visivo e il loro amore sfegatato per il cinema di genere i polizieschi anni ’70, l’horror, la fantascienza, il noir e il thriller.
Anche la loro presenza non può che suscitare mille domande, dal momento che nel secondare la propria poliedrica passione cinematografica i Manetti negli anni hanno si sono concessi a pratiche estremamente diverse. Esistono dei Manetti “professionisti”, bene acclimatati nel sistema produttivo “mainstream” nazionale, che sfornano, secondo i tipici ritmi forsennati imposti dalla serialità, puntate su puntate del Commissario Coliandro riplasmando e riadattando la loro inconfondibile cifra stilistica («il nostro stile è di non avere uno stile» mi disse una volta sghignazzando Marco Manetti) al sistema di regole e morigeratezze che la destinazione televisiva impone, ma esistono anche i Manetti incoercibili “guastatori”del cinema italiano, quelli di Zora La Vampira e di quel rutilante pastiche di generi cinematografici che è stato Ammore e Malavita, che di regole conoscono solo quelle del proprio cinema, divertito e cinefilo quanto basta e sempre eccedente rispetto a qualsiasi grammatica precostituita.
Se si tratterà di un nuovo piccolo cult per cinefili o di una produzione “mainstream”, con tutto ciò che ne deriva in quanto a direzione stilistica, solo lo schermo potrà dircelo. D’altronde l’approccio dei Bros è sempre stato piuttosto libero, “impermeabile” ai condizionamenti esterni, alle mode e al mito del successo di pubblico a tutti i costi, anzi, Marco Manetti in una recente intervista è stato chiaro a riguardo:
«A noi non frega niente se le cose funzionano e se vanno o non vanno di moda, se fanno soldi o non li fanno, a noi interessa soltanto se ci piace quello che facciamo e se ci divertiamo nel realizzarlo. »
Un’impeto ludico, di passione vera per il fare cinema, che lascia ben sperare, visto che di solito la regola non scritta secondo cui “quando il regista si diverte nel fare il film, si diverte anche lo spettatore” funziona a meraviglia.
Ma a fronte di questa libertà creativa e produttiva i fratelli si danno limiti ben definiti rispetto alla possibilità di una rielaborazione fortemente personale della figura mitologica di Diabolik, imponendosi un rigoroso rispetto filologico del carattere, della psicologia e della “scrittura” originaria del personaggio:
«Il nostro Diabolik, torniamo a ribadirlo, sarà simile al fumetto, con atmosfere un po’ cupe e meste, perché è così che da sempre sentiamo il fumetto.»
La volontà che li guida è dunque quella di non tradire le atmosfere, il tratto psicologico del personaggio ideato dalle sorelle Giussani, anche perchè queste non furono certo tenere nel giudicare la versione cinematografica del ’68 firmata addirittura da Mario Bava, che secondo il loro avviso snaturava il personaggio dell’inafferrabile ladro assimilandolo alla categoria degli agenti segreti iper accessoriati alla James Bond.
Da allora si è stabilito che su ogni operazione di riadattamento cinematografico le sorelle (e dopo la loro morte il loro successore-collaboratore Mario Gomboli) potessero esercitare per contratto un diritto di visione preventiva con possibilità di veto, quindi per i Bros era fondamentale ottenere da subito il consenso di Gomboli cui hanno solertemente inviato un primo script di cinque paginette, ricevendone un feedback davvero incoraggiante, perché l’erede delle Giussani « aspettava da 30 anni qualcuno che immaginasse così un film su Diabolik. »
Sarà dunque un Diabolik fedele alla tradizione fumettistica questo dei Manetti, ma inevitabilmente sarà anche un Diabolik molto personale, per via della forte personalità e della sensibilità stilistica mai perfettamente allineata del duo romano, sempre un po’ “alternativa”, come si dice, e che potrebbe dare vita, pur entro i limiti stabiliti, a una versione non canonica e meno istituzionalizzata dello storico personaggio cartaceo.
Le immagini del teaser ufficiale anticipano un immaginario fortemente vintage, costituito rimetabolizzando molti dei topoi e degli stereotipi ricorrenti del cinema di genere spionistico-thriller degli anni 60 e 70, l’iconica Jaguar nera di Diabolik, e le auto della polizia dal design datato, i vecchi e ingombranti “calcolatori” con mille lucette colorate lampeggianti dalle linee squadrate molto, moto seventies (e che abbiamo visto in tanti B-movies “di spie” e nei vari Mission Impossible e in ogni covo di genio del male che si rispetti.
Dal punto di vista della costituzione di immagine le atmosfere richiamano il genere noir, dalle ombre prominenti e ben contrastate ma con una fotografia di elevati valori cromatici e con l’alta definizione del digitale. Su tutto spicca per potenza iconica, la fugace inquadratura in primo piano degli occhi di ghiaccio di Marinelli incorniciati dal nero fondo come il mistero dell’indimenticata maschera di Diabolik. Forse siamo all’origine di una nuova icona, un Diabolik dallo sguardo penetrante e algido, che può attingere sia al repertorio espressivo “maledettistico” dello Zingaro quanto alla ricchezza emotiva di Martin Eden….ma le vie di Marinelli sono infinite…staremo a vedere. Del fatto che fosse proprio Marinelli “il loro uomo” i Bros non ne sono stati convinti da subito: «A Marinelli abbiamo fatto anche un provino, è un attore eccezionale ma non era immediato vederlo Diabolik», perché in effetti per tipo fisico Luca non corrisponde perfettamente al fascinoso moretto scaturito dalla matita delle Giussani e in più ha “l’aggravante” di quella sua naturale cupezza, quel non sai cosa che gli da sempre quel tocco di maledetto, di anima lacerata e amara, che non apparteneva al personaggio originale.
Ma il genio d’attore, la sua capacità di creazione empatica, si afferma ben al di sopra e al di là di ogni limitazione imposta dalla somiglianza fisica e dopo averlo visto “al lavoro” su Diabolik Marco Manetti non ha dubbi: « Luca gli ha dato un’umanità incredibile, più profonda.» perché è riuscito, sempre secondo le sue parole, a far vibrare di intense e interne passioni un personaggio che all’esterno deve restare algido come il ghiaccio, freddo e calcolatore, come se sottopelle a questa glaciale e sovraumana intelligenza ci fosse sempre « un qualcosa dentro che gli ruggisce», un’anima belva-interiore che in qualche modo ritroviamo anche nelle intenzioni di Marinelli, quando parlando di come ha concepito il personaggio dice «di averlo pensato come se avesse dentro una pantera»
Ma anche altri, oltre a Marinelli e ai Manetti, sono i motivi di interesse per questo Diabolik. Innanzitutto c’è Mastandrea che nel ruolo dell’ispettore Ginko riesce a inoculare quel suo tipico umore disilluso e amaramente ironico, quella poeticità sempre vagamente amarognola che stilla dai suoi personaggi, «una sorta di disincantata e malinconica ironia » l’hanno definita i Manetti, che ne fa un perfetto personaggio post moderno, umano ed estremamente “vero” nella sua imperfetta aderenza ai cliché più ricorrenti dei vari commissari cinematografici e televisivi nazionali. Claudia Gerini, che già in Ammore e Malavita aveva dimostrato di funzionare egregiamente con la direzione del duo romano, anche in questo caso dimostra uno spiccato talento da caratterista e poi c’è Miriam Leone, bellissima come sempre, che anche per somiglianza fisica è una un perfetta Eva Kant, l’ancillare figura femminile che affianca e sovente toglie dai guai il prodigioso Diabolik.
L’uscita sarebbe prevista per il 31 Dicembre 2020 e con tutte queste ragioni di interesse sarebbe bello potervi dare senza remore appuntamento in sala per non perdervi il nuovo folgorante film dei Manetti Bros, ma, amici cari, mala tempora currunt et peiora premunt, come si dice, e sulle sorti di quei luoghi magici di fantasie e ombre, le sale cinematografiche, che pure si sono dimostrate più che sicure in tutti questi mesi, non è semplice fare ipotesi.
Verrà il giorno in cui potremo incontrarci ancora, speriamo di poterlo fare nel mezzo buio accogliente di una sala cinematografica, speriamo che sia mentre proiettano il Diabolik dei Manetti Bros