- Note di critica percettiva sulla fruizione domestica del cinema
Le modalità di distribuzione “streaming”, on line, di prodotti cinematografici, che già da tempo era riuscita ad erodere il primato storico della sala cinematografiche in misura considerevole, e le conseguenti modalità di consumo dei prodotti ricondotte alla misura del domestico, e certo almeno in parte per via delle sciagurate contingenze degli ultimi mesi che hanno recluso entro le quattro mura di casa intere moltitudini, hanno compiuto un deciso balzo in avanti nell’assunzione del controllo del mercato mondiale della distribuzione cinematografica.
Milioni e milioni di Giga byte di cinema che viene goduto nella comodità accogliente del covo domestico, con un indubbio vantaggio di tutto ciò che riguarda la circolazione e la divulgazione capillare del cinema, la conoscenza planetaria delle opere, dei registi e degli attori.
Un fenomeno di diffusione pandemica, è il caso di dirlo, che in Action Academy studiamo con attenzione per le importanti conseguenze che sta producendo tanto nei processi di distribuzione delle opere filmiche che in quelli della loro concreta realizzazione, ma che ci interessa per le nuove declinazioni secondo cui coniuga l’esperienza dello spettatore, educandolo a forme di contatto col film, e di decrittazione dei suoi significati, parzialmente modificate ad opera del nuovo contesto.
Cerchiamo quindi di riflettere su quelle che sono innanzitutto le differenze di livello più basso, quello percettivo-cognitivo che riguarda i nostri sensi e sensazioni durante la visione di un film in contesto tradizionale e in contesto domestico, cercando di metterli in relazione con le diverse configurazioni di livello neuronale che le due esperienze attivano.
Comodità Vs. “emozione”
Un primo e più evidente motivo di differenza tra esperienza di sala ed esperienza domestica va ritrovato in quelle che sono le caratteristiche specifiche di attuazione della proiezione di sala, che avviene al buio e in maniera continuata per tutta la durata del film, salvo intervalli previsti. Lo spettatore, messo in condizione di sottomotricità forzata dal suo dover rimanere sulla poltroncina, esposto ad un buio prolungato che lo priva di qualsiasi altro stimolo visivo e sonoro che non siano quelli provenienti dallo schermo esperisce una condizione, in cui la sua soglia di giudizio critico si abbassa leggermente, un intorpidimento del giudizio critico, che difficilmente può essere riprodotta in sede domestica. Un primo punto fondamentale è il fatto che in sala, diversamente che a casa nostra, gli unici stimoli sensoriali presenti nel campo d’osservazione dello spettatore sono quelli visivi e uditi forniti dallo schermo. Questo fa si che tutte le risorse d’attenzione dello spettatore vengano focalizzate su di essi, creando nei loro confronti una sorta di “super attenzione”, di capacità d’osservazione e d’ascolto potenziati che sono poi quello sguardo speciale che nei film ci porta a notare spesso e volentieri dettagli infinitesimali e sfumature impercettibili che mai noteremmo nel corso ordinario della nostra vita quotidiana.
L’altro aspetto fondamentale del buio su cui molti autori insistono è che quando protratto per una certa durata (e in questo si sottolinea l’importanza della continuità dell’esperienza di visione, che non deve venire ripetutamente interrotta) induce una sorta di lieve pre addormentamento, un leggero abbassamento dello stato di coscienza critica che consente l’adesione psicologica ed emozionale dello spettatore ai fatti finzionali della trama, quella che con termine tecnico definiscono la “croyance spettatoriale”, che in circostanze di realtà ci sembrerebbero poco credibili o addirittura assurdi. Il film viene percepito come un’esperienza che ha più tratti di similitudine con il sogno, con la fantasticheria infantile che non la realtà pienamente cosciente di tutti i giorni, è quello stato della coscienza in cui siamo predisposti a quel differente grado di credulità, tipico dello spettatore cinematografico come di chi sogna, che ci permette di “immedesimarci”, cioè di aderire psicologicamente agli eventi e alle emozioni del film come se fossero reali, anche quando sappiamo non esserlo. Tutti gli studi concordano nel ritenere che il buio prolungato sia la condizione preliminare indispensabile al raggiungimento di questo intorpidimento del giudizio che rende il film simile al sogno.
Entrambi questi aspetti importanti della visione di sala difficilmente potranno essere riprodotti in condizione di visione domestica, vuoi per le differenti condizioni d’illuminazione e rumorosità degli ambienti, che raramente permettono di riprodurre lo stato di isolamento percettivo dello spettatore che si ritrova al cinema, vuoi per la modalità conviviale, rilassata e tendenzialmente poco concentrata con cui questa visione pantofolaia si consuma, interrotta da chiacchiere e telefonate, spuntini e scappatelle al bagno. Da un lato non sussistono le condizioni per creare quello stato di attenzione aumentata per suoni e immagini che il film postulerebbe per via delle troppe “distrazioni” visive e sonore che l’ambiente domestico consente, e dall’altro vengono meno quelle possibilità di immedesimazione accresciute dall’abbassamento di soglia del giudizio critico che la fruizione prolungata al buio e su una comoda poltrona inducono al cinema, per via della troppa libertà di movimento che ci porta a continue interruzioni, messaggi e chiamate col cellulare, scappatelle in cucina per uno spuntino, pause sigaretta che “spezzano” continuamente la nostra esperienza di immersione, e quindi di immedesimazione nel film.
Tutti fattori che inducono nell’esperienza domestica a sperimentare una croyance diminuita, cioè una ridotta adesione psicologica ed emotiva, ai fatti e alle situazioni psicologiche che il film mette in scena, che, a conti fatti, significa un film che ci coinvolge di meno e che eccita in misura ridota le nostre risposte emozionali. Quella domestica è una esperienza “ridotta” rispetto a quella della sala innanzitutto perché destinata a produrre un minor coinvolgimento dello spettatore
Stimoli (percettivi) e Cinema
Quello della croyance dello spettatore è però il livello di apprensione più evoluto del suo rapporto con il film, in cui sono implicate complesse funzioni cerebrali di tipo razionale e di interpretazione linguistica che gli permettono di attribuire un significato agli elementi finzionali del film, la trama, la recitazione, le scenografie, ecc. e che gli consentano di attivare complessi processi inferenziali, deduttivi e comparativi che garantiscano una corretta valutazione della natura puramente spettacolare, di messa in scena degli eventi e dei personaggi.
L’altro livello di interpretazione del significato che si attiva durante la visione, invece, si situa sotto il dominio di funzioni celebrali e cognitive di livello molto più primitivo di quelle di tipo razionale e verbale che sono implicate nell’interpretazione finzionale, perché riguarda il livello più basico dell’interpretazione degli stimoli sensoriali, gli stimoli visivi e uditivi che ci invia lo schermo.
Al netto di ogni complicazione di tipo “artistico”, drammaturgico o narrativo, il film per il nostro sistema “corpo-cervello” si presenta semplicemente come una multiforme sequenza di stimoli, stimoli visivi e uditivi, che una volta ricevuti andranno decodificati e interpretati. Il livello più immediato e inconscio di appropriazione del significato del film da parte dello spettatore, quello che gli fornisce gli elementi di base su cui poi elaborerà il significato più complesso e razionalizzato degli elementi di finzione, è quello dell’interpretazione “sensoriale” delle sue immagini e dei suoi suoni. Come dimostrano numerosi studi condotti tra gli anni ottanta e novanta su questo livello del significato “la dimensione dello stimolo” è un aspetto cruciale nel determinare livelli diversi di reattività allo stimolo stesso e dunque comportamenti di risposta, sia sul piano emotivo che comportamentale, molto diversificati. Uno stimolo grande, un suono o rumore particolarmente intenso e alto per volume percepito, un’immagine grande, che significa per noi un’oggetto di grandi dimensioni, attivano il nostro corpo e il nostro encefalo in misure corrispondentemente differenti, un fatto che al cinema ha una sua specifica funzionalità nel produrre una certa parte dei significati.
Entità dello stimolo e intensità dell’emozione
Se improvvisamente vicino a voi deflagra un potente boato istintivamente con uno scatto repentino fate un balzo (quando si dice sobbalzare per lo spavento) nella direzione opposta a quella da cui proviene il suono, mentre se alla stessa distanza di ode il ticchettio di un orologio, o un qualsiasi altro “piccolo” suono non vi succede nulla. Il suono “grande”, cioè con una elevata ampiezza di segnale, in questo caso innesca una reazione di fuga, lo scatto, che il suono di ampiezza ridotta non produce. Mentre il suono piccolo ci lascia indifferenti sul piano delle nostre reazioni emotive, quello grande genera un immediato “spavento” cioè una subitanea e inconscia sensazione di paura, che a livello comportamentale si traduce in un istintivo tentativo di fuga, il balzo improvviso che ci coglie. La differente intensità delle due reazioni, ovviamente, si spiega a partire dal differente grado con cui i due stimoli eccitano le aree cerebrali deputate all’elaborazione delle emozioni, il suono piccolo suscitando una risposta pressoché neutra, all’opposto di quello grande che invece causa una violenta e improvvisa attivazione elettrica dell’amigdala, l’area cerebrale deputata all’elaborazione della paura. E sarà questa attivazione a generare come risposta di difesa alla subitanea paura la scarica di adrenalina che attiva in maniera repentina i nostri muscoli, innescando lo scatto nella direzione opposta a quella da cui si presume provenire il pericolo.
Meccanismi atavici
A livello dell’interpretazione sensoriale del mondo “stimolo grande” significa reazione “grande”, cioè più intensa e immediata, perché più violenta è l’attivazione delle aree cerebrali generato da questo tipo di stimoli rispetto a quelli di entità ridotta, inducendo comportamenti di risposta più accentuati. Se ci pensate si tratta di meccanismi di difesa estremamente arcaici, radicati in starti remoti del nostro corso evolutivo. Per un nostro antenato del mesolitico il fatto che un’immagine grande, per esempio quella di un gigantesco Mammoth, eccitasse le sue aree cerebrali della paura in maniera più intensa e differente di quella di uno snello ratto della savana, e che quindi lo inducesse a innescare il comportamento muscolare della fuga in un caso e nell’altro no, era questione di stretta sopravvivenza, come il poter valutare dal suono dei passi in avvicinamento se ad accostarsi era un grosso predatore o una gracile preda.
Questo tipo di meccanismi ce li portiamo ancora dietro, come lascito immemore della nostra natura animale, e senza rendercene conto ne facciamo uso continuamente, soprattutto nell’esercizio di fruizione di quelle attività che in qualche modo riteniamo “estetiche” e collegate alla sfera emozionale.
La comunicazione sensoriale nell’arte e nel cinema
In quei contesti in cui dall’ascolto della musica, il clubbing in genere, i rave party, i concerti rock e metal, ecc., si intende facilitare nel pubblico una risposta di tipo emozionale, di partecipazione che non investa la sola sfera del corpo ma ne coinvolga le emozioni, la regola d’oro è quella di “sparare” il volume, cioè dilatare a dismisura l’ampiezza dello stimolo uditivo, attraverso l’uso di esorbitanti impianti di amplificazione. Quelli tra il pubblico che desiderano “emozioni più forti” tenderanno a piazzarsi nelle prime file, magari proprio davanti alle casse di amplificazione, dove l’intensità di segnale dello stimolo può arrivare a sfiorare alla soglia del dolore fisico. E l’intensità che si cerca in tutti questi contesti non è solo di tipo acustico, quella che si produce è una diversa potenza dei correlati emozionali dell’esperienza dell’ascolto musicale: più volume significa più emozione, maggior trasporto emotivo. In ambito visivo dell’immenso potere di suggestione emotiva che esercitano le dimensioni dell’immagine l’uomo si è accorto sin dai tempi delle ciclopiche architetture monumentali di Babilonesi e Faraoni d’Egitto, che proprio attraverso l’incremento dimensionale delle proprie effigi celebrative, statue colossali, immensi monumenti funebri, che glorificavano il loro mito, moltiplicavano la percezione della loro potenza e incutevano in sudditi e rivali un senso di timore inconscio.
Consumo domestico e intensità degli stimoli
Al cinema operano esattamente gli stessi meccanismi nel regolare il grado di intensità e il tipo di significato emotivo che attribuiamo tanto ai suoni che alle immagini. Sentirsi schiacciati dalla gigantesca immagine di un “cattivo” minacciosissimo che giganteggia su di noi dalla dimensione dei tre, quattro metri a cui lo porta lo schermo cinematografico, il trovarsi cioè di fronte a uno stimolo minaccioso sovradimensionato, come avveniva con l’immagine del mamooth, attiva delle reazioni di difesa, e una eccitazione delle corrispondenti aree cerebrali, di intensità (se non addirittura di tipo) completamente diverso da quelli che può produrre la stessa immagine ridotta alle dimensioni schermiche di un portatile o, peggio ancora, di uno smart phone. E così l’improvviso scoppio di un’esplosione non potrà farci trasalire nello stesso modo quando per via del poco volume prodotto dalle piccole casse dei device digitali domestici non stimola con la dovuta intensità le aree cerebrali che ne elaborano il senso. Lo stesso improvviso sparo o suono violento che nella sala cinematografica ci fa sobbalzare di sorpresa o spavento, quando riprodotto in piccolo ci lascia quasi indifferenti perché non stimola con la stessa violenza la nostra amigdala, non induce un grado di paura e spavento di pari intensità. Ma spesso sono proprio questi “sobbalzi”, queste impreviste reazioni emotive che un’immagine o un suono possono innescare a dare “sale” e sapore a una visione, sono ciò che rende il film speciale. Un pianto ingigantito dallo schermo e dall’impianto audio cinematografici ci commuove e ci rende partecipi in maniera più intensa di uno striminzito su uno schermo di pochi centimetri e non è questione di estetica, o di arte drammatica, ma di mera biologia, perché differente è l’intensità con cui il suono della voce piangente e l’immagine dolorosa del volto con le sue sofferenti rughe di espressione emotiva eccitano le nostre aree cerebrali quando potenziati dai mezzi della sala cinematografica.
Vedere un film piccolo non è solo questione dimensionale, vederlo ridotto nelle misure, ma investe in pieno la sfera dell’efficacia di senso del film, perché in realtà significa vederlo depotenziato, ridotto più nell’efficacia che nelle dimensioni, e privato proprio di quella parte dei suoi significati percettivi che al cinema ci fanno sobbalzare e trasalire, stupire o spaventare, come ben dimostra il fatto che le tecnologie del cosiddetto home cinema, le apparecchiature di fascia alta destinate alla riproduzione domestica del cinema, tendano ad emulare sempre più precisamente le caratteristiche di fruizione della sala cinematografica, con schermi di dimensioni sempre maggiori, una qualità di immagine sempre più cinematografica e impianti audio sempre più esorbitanti, che cercano di ricreare la potenza di impatto sensoriale che si esperisce davanti al grande schermo. Il tentativo è quello di restituire alla fruizione domestica quel portato di significati aggiunti, di emozioni che trovano il proprio mezzo di espressione non verbalizzata nella diversa entità degli stimoli sensoriali messi in campo nei due contesti e che per il momento restano prerogativa esclusiva della sala.