Per seguire una delle polemiche più paradossali che ha agitato gli ambienti cinematografici negli ultimi tempi partiamo dall’esilerante epilogo.
James Dunn, regista designato alla direzione del sequel di Suicide Squad, apprezzato regista di pellicole cult come Tromeo and Juliet (1996) e dei “Marvel-Movies” della saga I guardiani della galassia, in un post al vetriolo sentenziava:
«Molti dei nostri nonni pensavano che i gangster-movies fossero tutti uguali, spesso definendoli spregevoli. Alcuni dei nostri bisnonni pensavano lo stesso dei Western e credevano che i film di John Ford, Sam Peckinpah e Sergio Leone fossero tutti uguali. Ricordo di un mio vecchio zio a cui stavo parlando di Star Wars e che mi rispose dicendo: – l’ho visto quando si chiamava 2001 e, ragazzo mio, quanto Era noioso!- i supereroi sono semplicemente gangster-cowboy-avventurieri nello spazio di oggi. Alcuni film di supereroi sono orribili, altri sono belli. Come i film western e gangster (e prima ancora, come i FILM senza aggiunte), non tutti saranno in grado di apprezzarli, anche alcuni geni. E va bene così».
Apparentemente nulla di ridicolo, se non la difesa di un certo tipo di cine-comics, non fosse per il fatto che i “nonni”, i vecchietti che non capiscono il cinema moderno cui allude il buon Dunn, nello specifico, altri non sarebbero che Martin Scorsese e Francis Ford Coppola.
E il futuro regista di Suicide Squad 2 non sembra il solo a pensarla così, se guardiamo agli infestanti commenti dei molti anonimi che in questi giorni hanno intasato la rete e in cui si arriva a definire i due registi «vecchi invidiosi» che «non capiscono nulla di cinema» e probabilmente farebbero meglio «ad andare a casa» (Todd, perlomeno li aveva definiti “geni”, bontà sua).
Tutto questo nasce dal fatto che Scorsese avrebbe detto qualcosa ( e il compito di questo articolo sarà quello di capire esattamente cosa ) sugli intoccabili film dei super-ganzi paladini del bene e l’amico collega Coppola gli avrebbe dato ragione e supporto.
Secondo il popolo dei cine-fighissimi da tastiera, dunque, a quei vecchi rosiconi dei registi di film come Il Padrino, Apocalypse Now, Quei Bravi Ragazzi, Toro Scatenato, e Taxi Driver (robetta da vecchi che non conoscono il libro della De Lellis, insomma) «je rode» perchè Acquaman e L’uomo Ragno «stanno a ffà ‘r botto!!!» … Il livello della disputa si è fatto altissimo e ogni commento sarebbe superfluo.
Ad appicciare la miccia sarebbe stata una dichiarazione resa da Scorsese ai microfoni di Esquire, in cui, nello spiegare le ragioni per cui si è voluto risparmiare la visione di Avengers: Endgame ha osato, il dio dei fumetti glie ne scampi, pronunciare le seguenti parole: «ho provato a guardarli, ma non sono cinema. Per come sono fatti, mi ricordano più che altro dei parchi di divertimento a tema. Non è il cinema fatto da esseri umani che cercano di trasferire delle esperienze emozionali e psicologiche ad altri esseri umani.»
Una dichiarazione che da subito ha iniziato a rimbalzare come una pallina di flipper impazzita per la rete scatenando il “caso Scorsese-Marvel” e un mare di reazioni indignate, su cui conviene aprire una parentesi di riflessione.
Innanzitutto il regista non ha mai detto che i cinecomics in generale «fanno schifo», come alcuni sostengono, anzi una in una lettera aperta al New York Times di pochi giorni fa ci teneva a specificare: «molti franchise sono realizzati da persone di notevole talento artistico. Lo si può vedere sullo schermo. Il fatto che i film stessi non mi interessino è una questione di gusto personale e temperamento. So che se fossi più giovane e che se avessi raggiunto la maturità in un altro momento, sarei probabilmente entusiasta per questi film e forse avrei persino voluto crearne uno io stesso. Ma sono cresciuto in un altro periodo e ho sviluppato una concezione dei film – di quello che erano e di quello che avrebbero potuto essere – che è più lontana dall’universo Marvel di quanto noi sulla Terra lo siamo da Alpha Centauri».
È chiaro dunque che per Scorsese la questione non è quella della mancanza di talenti, che anzi riconosce essere ben presenti nel film di franchising e non c’è nemmeno la volontà di prendere le distanze dal recente e temutissimo fenomeno del finanziamento dei film da parte delle grandi piattaforme di streaming, se pensiamo che poche righe dopo scrive: «E sto parlando da persona che ha appena completato un film per Netflix. È solo questo, che ci ha permesso di realizzare The Irishmen nel modo in cui volevamo farlo, e per questo sarò sempre grato».
Ma allora perché il maestro non ritiene i film di franchising pienamente cinema, e più simili parchi di divertimento tematici?
La risposta va trovata continuando a leggere le sue parole: «ciò che non c’è è la rivelazione il mistero o il genuino pericolo emotivo. Niente è a rischio. I film sono realizzati per soddisfare una serie specifica di esigenze e sono progettati come variazioni di un numero finito di temi». E poco dopo: «molti di loro sono ben realizzati da team composti da persone di talento. Tuttavia, mancano di qualcosa che è essenziale per il cinema: la visione unificante di un singolo artista».
La mancanza che denuncia Scorsese, in pratica, è quella di quell’elemento non razionale, puramente creativo, che è ciò che chiamerei “visione d’artista”, la capacità di visione profetica che l’artista ha di vedere, e poi di far esistere sullo schermo, cose che altrimenti non esisterebbero, frutti purissimi della sua fantasia creatrice.
Per esempio, per capire di cosa si tratta, provate a pensare a un film come Il Padrino. Molto più che il film in sé quello vi verrà in mente è la “ visione” che esso evoca. A meno che non siate critici o accaniti conoscitori del cinema di Coppola più che ricordare le singole inquadrature, le scene o il montaggio, il film nella sua concretezza, ciò che vi verrà in mente di primo acchito è il vasto immaginario gangsteriano e mafioso che questo film-caposaldo ha saputo creare. Quel tipo di personaggi dal tipico accento meridional-americano, quei codici riconoscibili della comunicazione, come la battuta celebre «ci faccio un’offerta che non può rifiutare», il modo di vestire, quei tipici ambienti di locali fumosi, vicoli negletti, giardini di casa in cui si griglia sempre qualcosa per “gli amici”, insomma tutto quel vasto immaginario mitico legato alla rappresentazione cinematografica della mafia che ancora oggi costituisce il metro di riferimento principale tanto per il pubblico che per registi e sceneggiatori . Un’immaginario assoluto, il recente The Irish Man ne è la prova, se pensiamo che lo ritroviamo ancora oggi a fondamento di produzioni di grande popolarità come i Sopranos o, nelle sue varianti “etniche” e aggiornate ai giorni nostri, nelle varie Gomorre e Suburre nazionali, ma anche nelle produzioni incentrate sul narcotraffico di marca e ambientazione sudamericana.
Oltre alla “storia”, una trama complessa ed elaborata, ai personaggi e alle loro singole caratterizzazioni, l’enorme sforzo creativo, la visione d’artista di Coppola, include tutto questo, tutto questo mondo esistente a 360° indelebile nella memoria del cinema. La visione d’artista sottesa a un film è tutto ciò che prima non esisteva, e che, quasi magicamente, diventa esistente grazie all’immaginazione del regista, che “vede ” questi mondi prima ancora che esistano, li crea. Un processo di genesi puramente immaginativa che potenzialmente non ha altri limiti se non quelli imposti dalla capacità creativa dell’artista.
Una visione che è in grado di trasformare completamente ciò che mette in rappresentazione, facendone un universo di senso e di immagine completamente nuovi. Nel nostro immaginario sedimentato, infatti, la “Roma della Dolce Vita ” è un universo preciso che tutti sappiamo riconoscere e differenziare dalla” Roma della Grande Bellezza ” come dalla Roma pasoliniana. Visioni totalizzanti, creatrici di “universi paralleli”, mondi alternativi con una propria morale, regole di funzionamento sociale, personaggi costruiti a 360°.
Una possibilità di visione totalizzante che di fatto è preclusa ai super hero-movies, che devono lavorare con personaggi già inventati da altri e su universi immaginari già costituiti. Ogni nuovo film su l’Uomo Ragno o Batman non può, anzi non deve, creare ex-novo il personaggio e tutto il mondo che lo circonda, può al massimo offrire delle variazioni personali su questi materiali immaginativi provenienti da visioni precedenti.
Questa è la differenza che Scorsese rimarca, una differenza, quindi, non necessariamente un “difetto” che imputa ai comic-movies e cioè l’impossibilità strutturale di fondarli su una visione d’artista totalizzante, perchè, come sottolinea: «sono progettati come variazioni di un numero finito di temi» e sono questi temi ed elementi predefiniti a determinare i limiti all’inventiva del film, non più le infinite possibilità sconfinate offerte dal immaginazione dell’artista priva di vincoli. Non che poi restando all’interno di questi limiti manchi del tutto lo spazio di manovra per l’esercizio creativo, come dimostrano le versioni personalissime e visionarie che Nolan ha reso sullo schermo del personaggio di Batman, ma comunque si tratta di forme di visionarietà più limitata, di una re-interpretazione piuttosto che di una creazione ex-novo, come sarebbe proprio dell’arte.
Ed ecco spiegato perchè Scorsese ha scritto che i film in franchising sembrano più parchi a tema, che non cinema per come lui lo intende. I parchi non fondano l’universo di senso e non creano i personaggi cui sono dedicati, ma attraggono il pubblico e lo intrattengono sfruttando il forte richiamo che questi esercitano grazie alla loro fama/immagine pubblica ed è in questo senso che sono assimilabili ai film in franchising, come forme di riproposizione di un’immagine e di un universo già esistenti, già fondati da altre visioni.