ADDIO A SEAN CONNERY
Pochi giorni fa, il 31 ottobre, il mondo del cinema ha perso una delle sue stelle più iconiche. Sean Connery si è spento all’età di 90 anni, dopo essere entrato nell’immaginario collettivo grazie a numerose interpretazioni, nelle quali ha dato vita a personaggi indimenticabili. La carriera dell’attore scozzese può essere divisa agevolmente in due parti. La prima è rappresentata principalmente dalla figura di James Bond, personaggio che ha consacrato per sempre Connery nell’olimpo dei divi della settima arte; questa fase della sua carriera annovera anche altre pellicole di valore, tra cui l’inserto hitcockiano “Marnie” e le collaborazioni con Sidney Lumet in “La collina del disonore” e “Assassinio sull’Orient Express”, e termina idealmente proprio con l’ultima interpretazione dell’agente 007 nel remake apocrifo “Mai dire mai”. La seconda parte della carriera di Connery è invece, al netto delle avventure della spia britannica nata dalla penna di Ian Fleming, quella che consegna l’immagine definitiva dell’attore scozzese: costellato di film e personaggi di enorme successo e che sono diventati dei cult fin da subito, l’ultimo ventennio di attività del Nostro è quello a cui sicuramente le nuove generazioni sono più affezionate. Non si tratta di motivazioni anagrafiche o sentimentali. Il punto è che abbiamo letteralmente due versioni di Sean Connery: il giovane elegante e irresistibile che per forza di cose coincide maggiormente con l’ingombrante Bond da un lato, il saggio e paterno uomo di mezza età declinato in decine di versioni dall’altro.
Questo cambiamento è anche fisico. A un certo punto, esattamente alla metà degli anni ’80, il Connery moro e glabro lascia spazio alla sua versione matura: barba onnipresente (con i caratteristici baffi neri che emergono dal grigio attorno a loro), sguardo vissuto e quella calvizie a cui si indulge più facilmente rispetto ai tempi del parrucchino di 007. Questo nuovo look rispecchia anche la maturità artistica dell’attore. Si compie uno scatto nel viaggio dell’eroe: Sean non è più solo il protagonista su cui grava tutto il peso della narrazione, bensì spesso e volentieri opera un cambio di ruolo diventando il mentore o la spalla della situazione. Naturalmente il suo talento e la sua predisposizione sono così importanti che non gli permetteranno mai di abbandonare il ruolo dell’eroe, tanto che ancora nell’ultimo film a cui prende parte ricopre il ruolo del protagonista, quell’Allan Quatermain che ne “La leggenda degli uomini straordinari” ribadisce per l’ennesima e ultima volta la fierezza di Connery di essere Britannico e Scozzese.
Oggi che questa grande stella del cinema ci ha lasciato sarebbe dunque troppo facile scegliere di parlare della prima parte della sua carriera, concentrandosi sul ruolo nel quale rischiava di rimanere intrappolato dopo ben sei film (prima della settima e ultima interpretazione a distanza di un decennio). Ovviamente senza James Bond il Nostro non rappresenterebbe quello che oggi tutti noi sappiamo; ma lui è stato tanto abile nel separarsi dal suo personaggio più famoso che merita di essere ricordato da noi di Action Academy per tutto ciò che ci ha regalato dopo aver dismesso lo smoking della spia al servizio della corona britannica.
Negli anni la partecipazione di Sean Connery ad un film è diventato una sorta di “bollino di qualità”, che per gli spettatori significa personaggi sempre iconici e coinvolgenti, mentre offre a produttori e distributori la garanzia di incassi sicuri. Un’attore “trasversale”, che ha saputo conquistarsi l’affetto e la fiducia incondizionata del pubblico di generazioni differenti a suon di performance sempre brillanti ed emozionanti. Numerose sono le storie di successo che lui ha contribuito a formare, e che di riflesso hanno gonfiato in maniera esponenziale il suo successo. Certi suoi personaggi, Guglielmo da Baskerville, Jimmy Malone, Juan Sánchez Villa-Lobos Ramírez, il Professor Jones e Marko Ramius sono entrati di prepotenza nell’empireo dell’immaginario collettivo delle ultime tre o quattro generazioni di spettatori più o meno cinefili, mentre le sue performance giovanili, Bond in testa, ancora restano nelle memoria dei meno giovani come icone assolute di fascino cinematografico. Se poi guardiamo ai titoli, ai film di cui questi suoi personaggi sono stati protagonisti, sempre al netto del campione di incassi James Bond, la lista annovera veri e propri “pezzi da novanta” del peso di “Il nome della rosa”, “The Untouchables – Gli intoccabili”, “Highlander – L’ultimo immortale”, “Indiana Jones e l’ultima crociata”, “Caccia a Ottobre Rosso”. Il trinomio è sempre quello: capacità interpretativa raffinata, personaggi fortemente iconici (fascinosi o divertenti che siano), garanzia di forte presa sull’immaginario e nell’affetto di un vasto pubblico.
Una vasta galleria di personaggi memorabili, che testimonia sul piano tecnico l’estrema versatilità del lavoro attoriale di Sean, capace di restituire personaggi spesso diversissimi fra loro per background e intensità di interpretazione. Il Nostro non si è mai accontentato di camminare su lidi sicuri entro i rassicuranti confini della propria comfort zone, quella dei personaggi eleganti e sicuri di sé, avventurosi ma con una spruzzata di fascino romantico: al contrario ha sempre voluto osare, mettendosi in gioco con caratteri che richiedessero di volta in volta difetti, autoironia, dubbi esistenziali. Anche negli ultimi anni di attività Connery ha saputo concedersi il lusso di spaziare abilmente dall’action puro e duro di pellicole come “The Rock” e “Entrapment” alle dimensioni più intimistiche di “Scoprendo Forrester”. Quest’ultimo film, il penultimo della sua carriera, è quello che potrebbe essere definito il momento crepuscolare di Sean: qui interpreta uno scrittore disincantato e misantropo, che dopo un iniziale rifiuto accetta la chiamata all’avventura da parte di un giovane ammiratore e ne diventa il mentore; il punto essenziale ed emozionale risiede nel fatto che, dopo aver recuperato la gioia di respirare la vita, il personaggio di Connery si avvia verso la sua dipartita con animo sereno anticipando quello che sarà il suo addio alle scene. In effetti, se c’è una corrispondenza fra arte e realtà, questa si compie perfettamente ne “La leggenda degli uomini straordinari”: Allan Quatermain muore alla fine del racconto e l’ultima inquadratura del film indugia sulla sua tomba, in un perfetto parallelismo che sancisce la conclusione definitiva della carriera di Sean Connery. Con la morte del suo ultimo personaggio egli abbandona il cinema, ma lo fa in grande stile: con un personaggio forte, deciso, orgogliosamente britannico, proprio come Connery è orgogliosamente Scozzese fino al midollo (sul suo braccio destro spicca un tatuaggio “Scotland Forever”, ricordo degli anni trascorsi in marina, che ha sempre gelosamente nascosto in tutti i suoi film). Non stupisce, a tal proposito, il fatto che Sean sia diventato baronetto: un importante riconoscimento che, grazie al suo amore per la propria patria e ai meriti conseguiti nel suo operato artistico, lo ha fatto diventare uno dei Sir più famosi e amati del mondo.
Si è detto dell’importante differenza tra le due fasi della carriera di Sean Connery: la prima caratterizzata dal ruolo di James Bond, la seconda diversificata per numero di personaggi iconici. Tuttavia anche nella seconda fase è possibile rintracciare una sorta di archetipo per Connery: molto spesso può essere identificato come un personaggio tipicamente medievale, spesso intriso di religiosità cristiana e volentieri declinato nel fantastico. Il Nostro si è dimostrato molte volte a suo agio nei panni di figure operanti nei Secoli Bui, tanto che all’origine della sua seconda vita artistica c’è proprio quel Guglielmo Da Baskerville che ha svincolato per sempre Sean Connery dalla figura di 007. Il protagonista de “Il nome della rosa” è tanto più caro a noi Italiani in quanto coniuga l’eccezionalità dell’attore scozzese al genio creativo di Umberto Eco, autore del romanzo dal quale è tratto il film. Oltre ad essere sopravvissuto al segreto di Aristotele e all’incendio della biblioteca di Eco, Connery si diletta nei panni dell’immortale in “Highlander” come maestro d’armi, e raggiunge addirittura lo status di sovrano in “Robin Hood – Principe dei ladri”, in cui interpreta Re Riccardo dopo essere stato a sua volta l’intrepido arciere che ruba ai ricchi per dare ai poveri in “Robin e Marian” (negli anni ’70, quando ancora era opprimente lo spettro bondiano). Un curriculum di tale portata non poteva non portare Connery a interpretare il mitologico re medievale per eccellenza, Re Artù: eccolo allora nei panni del sovrano di Camelot in “Il primo cavaliere”, in cui si ritrova a contendere l’amore di Ginevra ad uno dei sex symbol della generazione successiva, Richard Gere. Un passaggio di testimone, si potrebbe dire; tanto che il Lancillotto interpretato da Gere sopravvive e conquista regina e leadership di Camelot dopo la morte dell’Artù “conneriano”.
Proprio la morte è una delle costanti nella carriera di Sean Connery. I suoi personaggi non fanno complimenti ad andare incontro ad un esito fatale, spesso e volentieri drammatico. Ma ce n’è uno su tutti che emerge in maniera traumaticamente artistica: il Jimmy Malone de “Gli intoccabili”, che fra una pozza di sangue e una vibrante esecuzione del “Ridi, pagliaccio” di Ruggero Leoncavallo porta l’attore scozzese a vincere finalmente l’Oscar (per il migliore attore non protagonista). Un riconoscimento dovuto che arriva nella piena maturità dell’artista, il quale però non si accontenta e continua a conquistare fan su fan grazie al suo carisma e al suo savoir faire. Fino a che ancora una volta vita a arte si incrociano. Steven Spielberg, da sempre desideroso di girare un film di 007, considera il suo personaggio più famoso proprio l’erede della spia britannica: naturalmente si parla di Indiana Jones, che nella sua terza avventura cinematografica deve rinvenire un tesoro del tutto particolare, cioè il rapporto in precedenza compromesso con suo padre. Ed ecco che il papà perfetto per Indiana Jones si rivela essere proprio il primo volto di quel James Bond tanto ammirato! Harrison Ford e Sean Connery danno vita ad una coppia infallibile, perfetta per tempi comici e affiatatissima sul set. Si sottolinea qui l’immenso talento di Connery nell’interpretare verosimilmente il padre di Ford nonostante fra i due ci siano solo dodici anni di differenza. Henry Jones Senior è un personaggio che appassiona, diverte e che riprende anche l’idea del Connery medievale, in quanto cultore e cercatore del Santo Graal. Un ruolo, quello del padre di Indy, entrato nel cuore di chi scrive e che ora lascia un vuoto profondo proprio come ha fatto con l’archeologo più famoso del cinema nel quarto capitolo della saga: in esso, la foto di Sean Connery sulla scrivania del protagonista a simboleggiare la sua morte è l’addio emotivamente perfetto a quest’uomo che tanto ci ha fatto divertire e sognare.