Il Pomo della discordia. Che la Mostra Internazionale D’arte Cinematografica del Lido di Venezia sia motivo di accese discussioni, partigianerie e polemiche già dai mesi precedenti la sua inaugurazione è ormai consuetudine consolidata, storia dell’Italico costume.
“Stare dalla parte del cinema” sembra essere questo il trait d’union tra Action Academy, e una 77a edizione della kermesse lagunare che ha il sapore della resilienza, primo grande evento cinematografico “in presenza” dell’era post Coronavirus.
Nell’ «annus horribilis in decade malefica» del distanziamento e delle proibizioni, e di un cinema digitalizzato che si fruisce sempre più tra le mura di casa, la volontà di organizzare un festival con tanto di corpi fisici che fisicamente si aggregano nel rito della visione collettiva si carica di un surplus di problematicità e valenze simboliche.
Non si tratterà, infatti, semplicemente di un festival che si compie con ingressi contingentati, con un ridottissimo numero di accreditati, con la previsione del distanziamento anche internamente alle sale che dovrà rispettarsi anche tra i cosiddetti “congiunti”. No, questo, prima e sopra di tutto, sarà il primo grande Festival Internazionale che, avvenendo “in forma fisica”, permetterà di testare la possibilità di una conciliazione tra le necessità dello stretto controllo sulla circolazione e il contatto tra persone e i grandi numeri di presenze .
Su un primo fronte la sfida si gioca anzitutto nel campo della logistica e dell’organizzazione, nell’allestimento e coordinamento di un gigantesco marchingegno che permetta di sincronizzare le tempistiche di controlli ad personam da eseguirsi su numeri elevatissimi di soggetti con quelli della programmazione festivaliera, che a sua volta risente delle imposizioni sul numero limitato di spettatori che possono accedere di volta in volta alle sale. Gestire come da ferreo protocollo anti-Covid gli inevitabili assembramenti che si creeranno ai punti di controllo e davanti alle sale garantendo però a tutti la possibilità di vedere tutti i film. Una sfida non semplice.
Su un altro fronte però, la scelta della direzione di evitare la formula del Festival “on-line” e di puntare tutto sulla presenza fisica, vale come dichiarazione forte sia nei confronti di quella modalità “de-socializzata” della visione domestica del cinema on-line, che in tempo di pandemia è divenuto preminente, sia nei confronti di quelle mastodontiche realtà produttive e distributive alternative alla sala che sono le grandi piattaforme digitali (Netflix in primis).
Organizzare un festival di cinema che si guarda collettivamente, nella compresenza fisica, significa innanzitutto riportare la sala cinematografica al centro del processo di fruizione e distribuzione del cinema, un imperativo certamente in controtendenza in questa frase di predominio della distribuzione domestica e digitale. La fruizione del film nel buio della sala è innanzitutto un’esperienza completamente differente a livello personale, lo sanno fin troppo bene gli studenti dei nostri corsi di recitazione e creatività e produzione, cui lo ripeto ormai a mo di litania.
Lo spettatore, forzatamente immobilizzato sulla poltrona, calato nel buio e nel (quasi) silenzio, sperimenta un tipo di attenzione “aumentata” per quegli stimoli audiovisivi che gli provengono dallo schermo e che essendo gli unici presenti nell’ambiente occupano interamente la sua attenzione. Una condizione difficilmente ripetibile durante la visione domestica continuamente interrotta da scappatelle al bagno o in cucina, messaggini di amici e cambiamenti di posizione.
La compresenza di altri soggetti, invece, instaura forme di interazione emotiva che ci suggestionano, anche quando non ce ne accorgiamo, nel recepire il significato di questa o quella scena, come del film in generale.
Durante la funzione di sala infatti, anche l’elaborazione del significato diventa un esperienza parzialmente partecipativa, perché i commenti degli amici, gli scoppi di risa o i pianti che a sorpresa coinvolgono tutta la sala, possono incidere profondamente sul significato che attribuiamo a quanto stiamo vedendo.
Che l’esigenza della dialogizzazione dell’esperienza filmica e della sua socializzazione, siano irrinunciabili lo dimostra quella stessa rete che da un lato promuove il consumo di cinema tra le mura domestiche e che dall’altro poi fiorisce di siti, gruppi, chat e pagine “di cinema” sulle quali cinefili e non si scambiano pareri su questo o quel film, celebrano il cinema , interpretano, recensiscono, litigano sul valore di questo o quell’attore. Una pratica che finisce col ribadire implicitamente quanto la dimensione sociale e dialettica caratteristica della sala sia componente irrinunciabile dell’esperienza di visione, anche quando praticata in contesti diversi.
Riportare il cinema nel suo naturale alveo della sala, dunque, equivale innanzitutto a ribadire la canonicità di un certo tipo di esperienza del cinema, più immersiva e più socializzata sul piano interpersonale, rispetto a quella domestica più superficiale e semi solitaria, ma non solo. In questa idea di cinema “di sala“, infatti, è implicita anche la difesa di un certo modello produttivo e distributivo, quello in cui è appunto la sala cinematografica, e non il colosso digitale, a fare da tramite finale tra l’enorme apparato produttivo che sta dietro al prodotto filmico e il pubblico che ne decreterà il successo o l’insuccesso commerciali. Un modello in cui dunque il numero e il dislocamento di queste sale diventa un fattore di prim’ordine nel determinare le sorti di un film.
Ed ovviamente, sembra superfluo dirlo, dietro tutto ciò ci sono le “persone”, tutto il vasto indotto lavorativo che permette questa compenetrazione delle pellicole sul territorio, migliaia di migliaia di “lavoratori dello spettacolo”, come oggi si ama definirli. Stiamo parlando di un vero e proprio esercito composto da esercenti di sala, piccoli imprenditori, dipendenti, insomma, migliaia e migliaia di famiglie, che la distribuzione digitale con le sue modalità di consumo domestico tenderebbe a collocare fuori dai margini.
Ed è quindi per ribadire, anche se implicitamente, la centralità di queste categorie e l’importanza del lavoro che svolgono, che un festival si organizza in “presenza” e cioè “in sala“. Quello che si propone con questo festival è, a conti fatti, quello stesso cinema che in Action Academy insegniamo ai nostri ragazzi, attraverso i corsi di creatività e produzione, un cinema “materiale”, fatto di persone, di professionisti, un cinema che non viaggi incorporeo e disperso in bit lungo i cavi del 4G, ma che occupi fisicamente i territori attraverso le sale cinematografiche, il cinema a cui “si deve andare” perché non viene lui da noi, ma che ci ripaga le fatiche del viaggio con un profluvio di emozioni inaspettate.
di Giulio Vicinelli (Giornalista critico cinematografico).